Per D. (ovvero, una storia del bagnante)
M'ama, non m'ama, Arte, Asciano

M’ama, mon m’ama. Continua la corrispondenza con le opere dei musei senesi. Scrivi anche tu la tua lettera…
Scrivo queste righe con la consapevolezza di chi si rivolge al mare, abbandonando il proprio messaggio in una bottiglia tra le onde dell’Oceano. Nella certezza che nessuno potrà mai leggerne alcuna, meno che mai te, al quale oggi mi indirizzo perdendomi nei ricordi.
Dicono che è nelle profondità delle acque che si trova la dimora di tutto quel che abbiamo perduto, dei nostri più profondi rimpianti.
Eppure, non c’era nessun mare a dividerci, né ad unirci il giorno in cui ci incontrammo.
Solo una sorgente, e la confortante e complice oscurità di una grotta.
Il tempo sbiadisce i ricordi, come in certi sogni notturni, in cui tutto si fa sfocato e dai contorni imprecisi. Tuttavia, nella mia mente, il pensiero di quella giornata e ognuna di quelle che da quel momento seguirono, resta ancora vivido. Chiaro e nitido, come se tutto fosse avvenuto solo pochi secondi fa, anziché ormai anni.
In paese eri per tutti l’eremita, il forestiero venuto da chissà dove, che girovagava per le selve, tenendosi lontano dalla folla, con l’aria da santone.
Francesco mi disse che forse eri un monaco.
Sapeva che percorrevo spesso quel sentiero, ogni tanto portando con me anche la bimba, il più delle volte da sola, e non voleva che mi spaventassi nel caso ti avessi visto sbucare all’improvviso dal nulla. Come se la vista di uno sconosciuto potesse bastare a farmi prendere paura.
Mi ha sempre vista fragile, lui.
Delicata e vulnerabile come una rosa.
E forse di essa avevo ancora la freschezza. O i colori, che mi avevano sempre attirato addosso gli sguardi indiscreti della gente.
Ma solo tu hai saputo vedermi per quella che ero davvero. Un groviglio di rovi, ben piantato nel terreno e pieno di spine, pronte a pungere chiunque avesse osato avvicinarsi troppo.
L’estate era arrivata in ritardo quell’anno, maggio sembrava quasi essersi scambiato con novembre e giugno aveva portato ben pochi miglioramenti.
Ci si preoccupava per i raccolti, appellandosi a Santi e Madonne, sperando per il meglio, che un’estate infruttuosa voleva dire per noi altri anche un magro inverno, e mesi di miseria e sacrifici.
Ma luglio era arrivato e con esso anche l’afa e il caldo torrido. Tutto insieme. Un’ondata rovente che ti mozzava il fiato.
Ti piangeva il cuore a vedere quelle schiene chine sui campi, in campagna, con il sole che non lasciava scampo e la pelle che bruciava sotto il suo dominio.
È dura la vita da queste parti.
Lo è oggi e lo era all’ epoca.
Ero andata all’Ombrone, come mio solito, con la catinella piena di panni e i vestiti che il sudore mi fasciava addosso come una seconda pelle.
Avevo lasciato Miriam a mia madre, che avrebbe preferito mi adeguassi alle altre signore a modo del paese, e lavassi la mia roba al lavatoio principale. Anche perché come moglie del fattore, dovevo sforzarmi di mantenere un certo contegno e non farlo sfigurare. Ma lo sai, io ho sempre mal sopportato la folla e il brusio del pettegolezzo. Tutto quel cicalare costante. Le furbette che fingendosi in errore, mettevano le mani sulla mia biancheria buona, tentando di spacciarla per loro. Ne capivo come le mie passeggiate potessero influire in malo modo sulla gestione delle terre dei Tolomei, da parte di Francesco. D’altronde lui stesso, si era ormai abituato negli anni al mio voler fare sempre di testa mia e sulle mie escursioni non aveva mai nulla da ridire.
In fondo era un uomo buono mio marito, questo non posso negarglielo.
Molto meglio, perciò, la pace e la calma della solitudine.
Non risposi dunque alle sue obiezioni, baciai la piccola, feci fagotto e mi avviai.
Il punto del fiume che solitamente sceglievo era lontano, e con quel caldo lo ammetto, durante la strada finivo col maledirmi da sola ogni volta per quella decisione testarda e controcorrente, ma quando poi ero lì, quelle acque mi ripagavano di tutto. Nessuno si spingeva mai così lontano e dopo il lavaggio dei panni, incurante del resto, mi gettavo nel fiume anch’io.
Da principio mezza vestita, fosse mai passasse qualcuno, poi persi pudore e presi l’abitudine del bagno nuda.
Era un sollievo in quella calura estiva.
La parte migliore della giornata.
Finché non arrivasti tu, naturalmente.
Scorsi la tua figura da lontano, mentre ero già al riparo sotto i rami del faggio che facevano ombra. Mi sistemai meglio le vesti, gettando di tanto in tanto l’occhio su di te, che intanto ti eri avvicinato all’argine e raccoglievi l’acqua in una bisaccia.
Indovinai subito la tua persona, ma non avevi l’aria del monaco così come mi era stato detto. Sembravi più un uomo qualunque, vittima del caldo, fermatosi a bere ai piedi di un fiume.
C’è mai qualcosa di vero nei pettegolezzi che si sentono in giro? Pensai in quei primi istanti.
Sentire la tua voce, improvvisamente, rompere quel silenzio, mi fece sussultare.
Per un attimo mi ero illusa di essere invisibile, di confondermi tra la vegetazione.
Invece anche tu avevi notato me, così come io avevo fatto di rimando con te.
Non ricordo con precisione la frase che pronunciasti, ma era la sorgente che stavi cercando e chiedevi nient’altro che la cortesia di mostrarti il luogo in cui essa fosse ubicata.
Avevi modi gentili, un tono pacato. Ti avevo creduto più vecchio, invece eri giovane, forse un mio coetaneo. I tuoi abiti, seppur non vistosi, sembravano curati. Non eri un cencioso o un mendicante.
Forse non era la scelta più saggia, ma decisi lo stesso di accompagnarti.
Chissà, magari le cose dovevano semplicemente andare così.
La sorgente si trovava in quei di Grottoli, dentro una caverna in cui tante volte, da ragazzini, i miei fratelli maggiori mi avevano sfidato ad entrare. Faceva capo al Bestina, un corso d’acqua breve che si congiungeva al torrente Copra, per poi gettarsi a sua volta, anch’esso, nell’Ombrone.
C’erano dei mulini, poco distanti in quelle zone, ma quella caverna restava a sé stante, avvolta nelle chiacchiere e nel mistero.
Si diceva fosse stata il nascondiglio di un famoso brigante e che il suo spettro si aggirasse ancora al suo interno, pronto a rubare l’anima a chiunque avesse osato addentrarvisi.
Non ci tornavo da almeno una decina d’anni.
Il silenzio durante il tragitto mi metteva in difficoltà, mi faceva sentire a disagio, per questo tentavo di riempirlo di quante più parole potessi.
Proprio io, solitamente taciturna.
Tu, al contrario, non ne usavi molte, ti limitavi a rispondere ai miei interrogativi, ma sorridevi ogni volta che il mio sguardo incontrava il tuo.
Eri uno studioso, mi raccontasti, un astronomo. Scrutavi il cielo e la terra, in cerca di sapere, prendendo nota di tutto quello che ti sembrava curioso, nuovo e importante. Viaggiavi leggero e provvedevi a te stesso dando, di tanto in tanto, una mano a qualche contadino e arrangiandoti per lo più come meglio potevi. Lontani dalle città, mi spiegasti, le luci in cielo si ammiravano meglio e la solitudine non ti dispiaceva.
Quando finalmente arrivammo, i tuoi occhi sembrarono illuminarsi di colpo, incantati da quello spettacolo che, ai miei, sembrava così scontato. Cosa vedevi di così speciale all’interno di quella grotta? Cosa ti spingeva a sorridere in quel modo? Restai in silenzio, vicina all’entrata, e non chiesi nulla. L’acqua era curativa, dicesti e a lungo l’avevi cercata.
Nessuno dalle mie parti l’aveva mai definita in quel modo. Ti ascoltavo dubbiosa, ma il tuo entusiasmo era contagioso, mi fece sentire complice di quella scoperta e mi ritrovai a sorridere anch’io, senza un motivo preciso, di quella situazione.
Poi iniziasti a spogliarti.
Non sembravi badare a me, alla mia presenza, alla mia persona, ti lasciavi solo cadere gli abiti di dosso, abbagliato da quella fonte in cui capivo volevi gettarti. Ti guardai. Il fisico asciutto, ma scolpito. Le gambe possenti, le spalle larghe il giusto e ben definite in ogni suo muscolo.
Eri un uomo attraente. Sin troppo, forse.
Perlomeno lo eri ai miei occhi.
E di colpo tutto mi sembrò sconveniente.
Non solo la tua nudità, che nella mia testa appariva ora come una profonda mancanza di rispetto nei miei confronti, ma tutto ciò che finora era avvenuto. Arrossii e percepii il mio volto in fiamme. Da pallido e rosato qual era, un tutt’uno con il rosso dei miei capelli. Cosa mi era passato per la testa? Avevo abbandonato le mie cose in un angolo, al fiume, per accompagnare un giovane sconosciuto in un antro nascosto tra le campagne. Dovevo aver perso la ragione. E tu te ne accorsi, perché immerso ormai fino alla vita nella sorgente, tentasti di dirmi qualcosa e rassicurarmi.
Ma era già troppo tardi, perché senza dire una parola, ero già fuggita via, di corsa, verso la strada di casa.
Il nostro incontro turbò i miei pensieri per un paio di giorni, finché non mi decisi infine di tornare all’Ombrone e riprendere il volgere delle giornate così come avevo sempre fatto. Mi stupii nel trovare accanto al mio faggio, un piccolo pezzo di carta avvolto su sé stesso, come una pergamena, legato con uno spago ad un saldo masso alla base delle radici. Lo srotolai e restai a fissarlo per una buona decina di secondi.
“Vi chiedo perdono, se col mio comportamento dell’altro giorno vi ho recato offesa, non era nelle mie intenzioni. Spero avrò modo di vedervi ancora, anche solo per ringraziarvi di persona, per l’aiuto offertomi”. D.
Non sapevo leggere.
Ero in grado di riconoscere alcune consonanti e vocali, quelle del mio nome nello specifico, che avevo imparato a scrivere anni prima.
Ma in quel messaggio c’erano troppe parole perché io riuscissi a interpretarlo, né potevo sognarmi di conservarlo e farmelo leggere da qualcuno.
Chissà che vi era scritto, e che avrebbe pensato la gente?
Lo accartocciai e lo gettai tra gli alberi, di nuovo pentita per essere tornata sin lì.
Svolsi i miei lavori e me ne tornai in fretta a casa.
Ma una cosa mi era rimasta impressa di quelle righe, stese in così bella calligrafia, e continuava a tornarmi in mente a più riprese durante la giornata: l’iniziale del tuo nome, la tua firma puntata.
La D.
Era tra le consonanti che conoscevo e, in maniera del tutto illogica e priva di qualsiasi senso compiuto, non facevo che tratteggiare in maniera distratta con i polpastrelli, sulle superfici del tavolo, o dei mobili, in giro per la casa in pausa tra una faccenda e l’altra, i contorni di quel carattere.
Mi avevi fatto qualcosa. Non sapevo di cosa si trattasse, ma quella scena alla grotta, non faceva che tornarmi in testa. Quella D. agiva su di me come un richiamo.
Dovevo tornare, cercarti e vederti. Una volta soltanto magari, ma dovevo farlo. Il perché non aveva alcuna importanza. Ma non vedevo altra strada per uscire dal labirinto di quei pensieri che ormai mi tormentava.
E così feci.
Il pizzico di razionalità che ancora continuava ad esistere in me, si augurava il fallimento di quell’impresa, il verificarsi di qualche imprevisto in grado di distogliermi definitivamente dal mio intento.
Ma niente di tutto ciò avvenne.
Trovarti fu sin troppo facile. E da lì non fu più possibile tornare indietro.
Rammentare di come in quell’unica giornata fummo in grado di azzerare ogni distanza e diventare infine un tutt’uno, è un qualcosa che fa bene e male allo stesso tempo.
Ero sposata, avevo una figlia, eppure non avevo mai conosciuto l’amore fino a quel momento.
Non così, non in quel modo.
Tutto con te era diverso da qualsiasi cosa avessi vissuto nella mia vita sino ad allora. Ti dedicavi a me con passione e dedizione. Non esisteva egoismo nei tuoi gesti e nelle tue carezze, e io, priva di pudore come forse non ero mai stata prima, facevo lo stesso con te.
E quella carnalità non aveva nulla di osceno, o sporco, o sbagliato. Era il nostro desiderio tramutato in verità, in corpi che si avvinghiavano e in mani che si cercavano.
Vivevo per quegli incontri, per quei pomeriggi rubati, e sentivo che per te era lo stesso.
Non mi interessava più di nient’altro.
Ero diventata distratta, in casa, nelle faccende domestiche, con Miriam che ormai lasciavo sempre più spesso insieme alla nonna, mentre io scappavo da te.
Francesco non sembrava badare troppo a quei cambiamenti. D’altronde ero sempre stata una donna strana, complicata, diversa dalle altre che prima di me aveva conosciuto, e comunque in casa non c’era mai.
L’estate procedette così.
Mi insegnasti a leggere e scrivere, durante quei nostri momenti insieme. E se ora posso parlarti in questa lettera, non lo devo nient’altro che a te.
Eri così diverso dagli uomini rudi del paese.
Mi riempivi di parole, di racconti, di informazioni.
Con le dita ridisegnavi sul mio corpo, sulla mia schiena, le mie braccia, le mie gambe, le costellazioni che la notte studiavi nel cielo. Univi i miei nei, come punti luminosi nell’universo, ripetendomi di volta in volta i loro nomi, e con le labbra li baciavi, scrivendo sulla mia pelle un cammino di stelle che solo tu sapevi vedere, e che conduceva me ad un piacere estremo.
La scintilla che era scoccata tra di noi, dicevi, era diventata una fiamma, un fuoco che ormai ci aveva vinti. Non dovevamo contrastarlo, piuttosto lasciarlo divampare, in tutta la sua forza, il suo splendore. Era vita, nient’altro che vita. E noi vivi eravamo.
Quindi, che ci consumasse pure.
La notte, quando dormivo nel mio letto distante da te e dalla nostra grotta complice, facevo fatica a prendere sonno. Mi agitavo e mi rigiravo, accusando il mattino successivo, al tavolo della colazione, quel caldo maledetto, che mi toglieva il fiato e non mi lasciava riposare.
Ma era sempre a te che pensavo.
Una situazione che, ahimè, non poteva durare per sempre.
Verso i primi di agosto, iniziasti a propormi di fuggire insieme. Era impensabile che tutto si riducesse soltanto a quelle poche ore giornaliere. Non erano sufficienti, non ti bastavano. Noi due dovevamo essere qualcosa di più, il nostro incontro non era stato casuale.
Quei discorsi mi facevano paura.
Anch’io fantasticavo costantemente, immaginando una nostra quotidianità lontana dal mondo che conoscevo e che mi ingabbiava. Ma renderla reale non mi sembrava possibile.
A volte ti assecondavo, altre cambiavo discorso o ti zittivo baciandoti, usando il mio corpo come deterrente col quale distrarti.
I tuoi progetti di fuga, là dove si facevano più insistenti e via via più dettagliati, m’innervosivano, così come il modo sognante con il quale mi vedevi, in quelle situazioni che ricreavi nella tua testa, prive ai miei occhi di ogni fondamento.
Non volevo ascoltarti, né pensarci.
Un giorno, arrivando dal mio solito percorso, ti vidi in compagnia di un giovane.
Mi allarmai e mi nascosi in attesa che l’uomo si allontanasse, per paura di essere vista e scoperta.
Quando se ne andò, mi raccontasti brevemente di lui, ma le tue parole non mi piacquero.
Era un giovane pittore, un tale Angelo, ti aveva visto nei pressi della sorgente e ti aveva trovato d’ispirazione per un suo dipinto sulla vita di un santo. San Giovanni o San Girolamo, non ricordo più quale fosse dei due ora. Ma non fu quest’informazione a turbarmi, bensì ciò che avevi fatto.
Gli avevi parlato di noi, della nostra storia, la nostra relazione segreta, chiedendogli un passaggio per Roma, città in cui lui stesso era diretto, di lì a una settimana, nel giorno in cui sarebbe partito. Nella capitale avremmo potuto ricominciare, oppure sarebbe stato il punto di partenza dal quale far iniziare il nostro viaggio.
Eri euforico, mi prendevi le mani e le baciavi, incurante della fede che incorniciava l’anulare della mia mano sinistra, programmando già ogni tappa di quel peregrinaggio e della nostra vita insieme.
Non vedevi quanto ero seria, come mi ero fatta scura in volto nel sentire quelle parole?
La rabbia s’impadronì di me in una sorta di furia cieca. Mi scostai bruscamente ed esplosi.
“Come ti è saltato in mente di raccontare ad uno sconosciuto di noi? Come hai potuto farmi questo alle spalle?! Potrebbe essere chiunque, raccontarlo in paese, a Francesco, ai miei fratelli! Non capisci cosa c’è in gioco? È la mia vita!”.
Sembravi confuso. Non mi capivi, in quel momento parlavamo due lingue differenti e le tue risposte si persero di nuovo nelle fantasticherie in cui ci vedevi felici, lontani e liberi. Di essere noi o chiunque altro avremmo voluto essere. Non v’era d’aver paura, non era quello il mio posto, ero sprecata, meritavo ben altro, la felicità che insieme avremmo potuto perseguire.
“Libertà, ma di quale libertà stai parlando… Credi di sapere cos’è giusto per me, per la mia vita, la mia persona, ma la verità è che non hai chiaro neppure di come vivere la tua! Ti trascini di borgo in borgo, vivendo come un eremita, inseguendo gli astri, i particolari della natura, ma sei distaccato dalla realtà! Dalle cose pratiche della vita di ogni giorno. Di cosa vivremmo a Roma? Quale futuro brillante pensi di vedere in me? Sono una donna. Una donna sposata. Un’adultera. Non esiste alcun posto in cui potrei essere qualcosa di diverso da questo. E i tuoi, i nostri… sono solo sogni. Niente più di questo”.
Il tuo volto cambiò e le lacrime che iniziarono di volontà propria, a scendere copiosamente dai miei occhi, ne offuscarono ancora di più i tratti. Sapevo di averti ferito, di averti colpito nel profondo. Nei lati, tra l’altro, che di te amavo di più, che ti rendevano unico e così raro nel bel mezzo della ruvidità del mio mondo.
La frustrazione era così tanta. La consapevolezza di non poterti avere davvero, l’assurdità di tutta quella situazione.
Tu restavi muto, non dicevi niente. Nessuna obiezione, nessun grido, nulla.
Così mi voltai e scappai via, come quella primissima volta alla sorgente, prima che le lacrime mi impedissero di vedere del tutto. Non accadde nulla in quel mio folle ritorno verso casa. Credevo mi avresti seguita, che ad un certo punto ti avrei sentito afferrarmi e attrarmi a te, per mettere a tacere con un tuo abbraccio quella tormenta che mi si agitava dentro. Ma così non fu.
La freccia che avevo tirato ti aveva colpito in pieno petto e rincorrermi non era tra i tuoi desideri.
Quando infine giunsi da mia madre per riprendermi la bambina, ad accogliermi trovai lo svolgimento dell’ennesimo dramma. Miriam era caduta giocando con un paio di ragazzini più grandi di lei, e la spalla destra le era fuoriuscita. Al mio arrivo era già stata sistemata e accuratamente fasciata, ma l’apprensione dei presenti e la disperazione di mia figlia, mi travolsero completamente.
La presi in braccio e la baciai in ogni dove, fronte, guance, nasino, trattenendo io stessa le lacrime.
Mi ricomposi il minimo indispensabile per andarmene e allontanarmi da quella calca, e ignorando totalmente i rimproveri dei miei genitori, mi avviai verso casa.
Ero una pessima madre.
Per settimane avevo trascurato mia figlia, una bambina di appena quattro anni, per vivere una storia irreale e clandestina, senza alcun futuro possibile e immaginabile. Rimpiangendo a volte, e mi vergogno un po’ ad ammetterlo, persino di averla avuta, di averla messa al mondo.
Ero profondamente scossa, per lei e per te, e faticai a mostrare il giusto contegno quando Francesco rientrò a casa. Lui lo attribuì allo spavento per Miriam e tentò persino di consolarmi, a suo modo, aumentando solo i miei numerosi sensi di colpa. I bambini cadono, si sa, io alla sua età ero sempre per terra e tu avevi le ginocchia sbucciate persino il giorno in cui venni a chiederti in moglie, mi disse. Ma non c’era niente in quelle parole che poteva essermi in qualche modo di conforto.
I giorni seguenti non tornai né al fiume né alla sorgente. Continuavi ad essere lì, profondamente radicato nei miei pensieri e nel mio cuore, ma non sapevo dov’eri, cosa si agitava nel tuo animo, cosa stessi facendo.
Immaginai quel pittore ritrarti.
I tuoi occhi, le tue labbra.
E poi, due giorni prima della data fatidica, di quella partenza tanto agognata, ti vidi appoggiato alla staccionata, nel selciato dietro casa mia.
Il cuore rallentò e poi accelerò di nuovo i suoi battiti, in un galoppo sfrenato.
Non ti eri mai spinto sin lì, ero sempre stata io a raggiungerti tra i boschi e nei nostri luoghi. Non sapevo neppure conoscessi il posto in cui abitavo. Dimenticai ogni cosa intorno a me e dissi a Miriam di andare a raccogliere le uova nel pollaio.
Per fortuna abitavamo in campagna e i primi vicini erano distanti almeno un paio di chilometri.
Venni verso di te con le gambe che tremavano. Non sapevo cosa dire. Avrei solo voluto baciarti e dirti, sì, non mi importa più di niente, portami via, portami lontana da tutto.
Ma le parole non mi uscivano. Fosti tu a infrangere quel momento morto che sembrava eterno, e lo facesti baciandomi.
Avevi capito? Mi avevi perdonata?
Ti abbracciai e scoppiai in lacrime. Un pianto convulso e incontrollabile, di chi sta per perdere tutto e non può fare niente di diverso per evitarlo.
Mi dispiace, sussurrai e ti sentii stringermi di più.
Non parlavi ma riuscivamo a capirci lo stesso.
Dopo svariati minuti, fummo interrotti dalla voce di Miriam, che in lontananza chiamava il mio nome.
Mi asciugasti le lacrime e mi baciasti di nuovo.
“Ti aspetto alla sorgente, domani notte. Pensavo che della vita fosse sufficiente solo questo per me, gli studi, la conoscenza. Ma quelle stesse cose, oggi, senza te, perdono di ogni importanza e significato. Non hanno più lo stesso fascino e senso. La mia vita, quella vera, legata alla terra, alla carne e alle cose pratiche, come hai detto tu, è iniziata il giorno in cui ti ho incontrata. Non voglio porne fine ora. Vieni domani. Resterò fino all’alba se sarà necessario”.
E detto questo ti allontanasti, lentamente, con passo fermo, dal medesimo sentiero dal quale eri venuto.
Mi tormentai per il resto della giornata e, ovviamente, anche per tutta quella seguente.
Mi sentivo come in balia delle onde, lontana dalla riva, naufraga in una tempesta che non voleva placarsi. Osservavo le cose intorno a me in maniera distaccata, senza saper dire a me stessa se avrei visto quei medesimi oggetti la mattina successiva e per i prossimi anni, o se i miei i occhi si sarebbero posati altrove, in una nuova casa, una nuova quotidianità. Quella sera a cena non riuscii ad ingoiare neppure un boccone. Ero pallida, silenziosa, Francesco pensò mi fossi presa qualche malanno.
Terminai le faccende e misi a letto Miriam, restando seduta sulla sedia a dondolo accanto al suo lettino. Quante cose mi perderò della sua vita, pensai. Crescendo mi somiglierà ancora? Saprei riconoscerla incontrandola per caso in mezzo alla folla, tra una decina d’anni o forse più? E domani cosa accadrà quando si sveglierà e non mi troverà, piangerà? Mi cercherà nei giorni a venire?
Non so se gli uomini che abbandonano le famiglie e se ne vanno per la loro strada, si pongono le stesse domande prima di andare via. Io mi sentivo sopraffatta.
Insieme a te, quella stretta allo stomaco che provavo in quel momento all’idea di lasciare mia figlia, sarebbe scomparsa o mi avrebbe accompagnata per il resto della vita? Sarei arrivata a odiarti per questo? Dio, perché doveva essere tutto così difficile.
In quanti avevano vissuto prima di noi quel medesimo destino e quanti altri ancora, si sarebbero ritrovati in futuro, di fronte ad un bivio simile?
E poi presi consapevolezza e vidi l’avvenire della mia bambina limpido e chiaro, come in una visione. Avrebbe pagato il prezzo della mia libertà con il disonore.
Suo padre era un uomo, ne avrebbe sofferto forse un poco all’inizio, ma avrebbe potuto rifarsi una vita, gli uomini cascano sempre in piedi.
Ma Miriam? In paese l’avrebbero discriminata, derisa e allontanata. Essere la figlia del fattore non sarebbe stato sufficiente a garantirle il rispetto della comunità, anzi, probabilmente anche suo padre stesso, avrebbe potuto finire con l’odiarla, rivedendo magari in lei me. Andarmene significava gettare la mia colpa sulle spalle di mia figlia.
La mia felicità per la sua.
Non ero mai stata particolarmente materna, né mi ero sentita, anche in precedenza, troppo incline a quella vita di moglie e madre che veniva imposta ad ogni donna sin dalla nascita.
Avevano ragione in paese, ero sempre stata strana. Ma Miriam era mia, non aveva chiesto lei di nascere, così come io non avevo desiderato all’epoca che arrivasse, ma il miracolo era avvenuto lo stesso.
E nonostante tutto, malgrado le mie numerose lacune, l’amavo.
Sì, semplicemente l’amavo.
Non le avrei fatto un torto così grande. Anche se questo significava farlo a me stessa, e a te, che amavo forse al suo pari.
Soffiai sulla candela, che si consumava ormai da un pezzo davanti la finestra e raggiunsi mio marito a letto. La porta restò chiusa quella notte e io, come ben sai, non venni mai da te.
L’indomani mi finsi malata, confermando i sospetti di Francesco della sera prima. O forse lo ero davvero, chi lo sa.
Mi sentivo afflitta da una strana debolezza, una languidezza che mi rendeva spossata e che mi costrinse a letto per un paio di giorni. Dormii quasi tutto il tempo. Il mio corpo tentava di reagire al dolore per ciò che avevo perso come poteva. Di te non seppi più nulla.
Con enorme sorpresa di tutti, quando mi ristabilii, presi la nuova abitudine di lavare i panni al lavatoio, insieme a tutte le altre. Non tornai più all’Ombrone, né in nessuno di quei luoghi che ci erano appartenuti.
Avevo bisogno di acquisire una nuova routine, dimenticare, lasciare che il lavoro quotidiano mi sfiancasse e non mi desse modo di pensarti. Un solo secondo ferma e sarei stata perduta.
E così, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, andai avanti e gli anni trascorsero. La vita ha ripreso il suo ritmo e io ho potuto vedere mia figlia, l’unica che abbia mai avuto, crescere, sposarsi e diventare a sua volta madre.
La osservo e mi sembra felice o mi illudo che sia così. Penso, tutto sommato, di aver fatto la scelta giusta, di aver saputo onorare la responsabilità per quella vita che ho messo al mondo.
Ma ora che l’inverno è arrivato per la Rosa che ero un tempo, e l’argento ha preso il posto del rosso nella mia chioma ancora lunga, evitare di pensarti non mi riesce più. E ti rivedo com’eri in quei giorni d’estate, mentre prendevi l’acqua al fiume, o mentre mi stringevi parlando della tua vita appena iniziata.
Vorrei gridare il tuo nome e chiederti perdono. Per non essere venuta, per non essere riuscita neppure a dirti addio. Per non aver avuto il coraggio di essere la donna che volevi io fossi.
Come sarà stata la tua vita dopo quella notte? Me sono chiesta tante volte.
Hai incontrato un’altra col tempo? Sei rimasto da solo?
E, tra tutte le spine acuminate e velenose dei miei rovi, del quale la mia essenza era composta, una, una soltanto, è riuscita a penetrare la tua carne per rimanere lì impiantata, nonostante tutto, durante tutto questo tempo?
Non lo so e temo che non potrò mai saperlo.
Ma, semmai potessi sentirmi, se un giorno riuscissi per chissà quale caso, a leggere queste righe che parlano di me e di noi, vorrei dirti ancora un’ultima cosa.
Quel fuoco, la fiamma di cui sempre mi parlavi, che ci aveva colti e vinti nel bel mezzo di quella torrida estate, in me, non ha mai smesso di bruciare. Né il tempo, né gli accadimenti della vita, sono mai riusciti ad impedirmi, nel segreto della mia anima, di alimentarla e tenerla viva.
Quel giorno in te mi sono persa, e da quel momento, sappilo, non mi sono mai più ritrovata.
A.
La risposta
Cara A.,
le tue parole sono arrivate a me. So che non ne sono destinatario ma l’amicizia che mi legava a D. mi ha dato l’autorizzazione a leggerle.
Che buffa la vita talvolta. Passi decenni a porti domande, a interrogarti e poi basta un nonnulla per riempire la tua giornata di risposte.
Quelle attese da sempre.
Si dipanano da queste pagine, come se finalmente la tua anima parlasse con cuore liberato dai fili di molte esistenze: quelle che hai vissuto (quella che hai scelto, poi – forse – durante lo scorrere degli anni subìta, ma comunque scelta e quella che avresti potuto avere e che, in un certo modo, hai vissuto con la mente giorno dopo giorno); quella di D. e, immagina, perfino la mia.
Quanto ti abbiamo aspettato quella notte. Seduti, in silenzio, sul ciglio del fiume. D. trasaliva a ogni rumore, a ogni battito d’ali degli animali che popolano il buio. Lo scricchiolio delle foglie secche sperava fosse provocato dai tuoi passi.
Si era seduto su un masso da cui poteva osservare bene la stradella dalla quale tu eri solita raggiungerlo nei vostri giorni caldi di passione.
Poi, piano piano, le tenebre lasciarono spazio ai raggi del sole di un’alba nuova che si affacciava al mondo e disse solo: “Ha scelto, andiamo”.
La strada per Roma. Il silenzio. Un vero uomo non si vergogna di piangere. Io tacevo nel rispetto di quel dolore così forte.
Sinceramente, non so se io avrei abbandonato il mio amore senza lottare. Forse sarei piombato a casa tua e ti avrei supplicata. Forse non sarei partito. Forse, meschinamente, ti avrei fatta sentire in colpa per avermi fatto innamorare in modo folle per poi lasciarmi così, su un sasso, senza un saluto, senza una spiegazione.
“Non avrebbe mai anteposto il suo piacere, la sua felicità, all’offrire un’esistenza serena a sua figlia”, mi disse molto tempo dopo D. quando gli chiesi il perché della sua scelta. “Non le porto rancore, ma non voglio nemmeno spiegazioni, sarà sempre nel mio cuore, ma ormai è finita. Basta così”.
Non voleva contrastare il sentimento che teneva dentro, non voleva contenere la sua anima, non voleva perdere sé stesso per sempre reprimendo il suo amore. Era successo quel che sai e lo affrontava così.
Ha sofferto? Molto. Eravate giovani, appassionati e belli, ma con due vite già strutturate in modo opposto: tu donna rispettabile di paese che, come convenienza voleva, aveva trovato un buon uomo (e anche il classico “buon partito” da sposare e ti eri accasata); D. studioso, zingaro, libero.
Da quella notte tutto è cambiato.
La sua non era una passione nata sotto un rovente sole di luglio. A pensarci è strano come sia speculare ad allora: un giugno piovoso, freddo, che rischiava di rovinare il lavoro di tanti e un luglio torrido. E oggi come allora è destino che vira le esistenze. Quel luglio D. pensò di vedere davanti il suo futuro, quello che si concretizzava tra le braccia di colei che si donava con passione e ingenuità e senza vergogna dentro l’acqua di una grotta, di un fiume, all’ombra delle fronde del bosco. Al riparo da tutto.
Tuttavia, ti ha fatto il dono più grande: ti ha concesso di fare ciò che volevi, senza vincolarti, senza porti ulteriori angosce. Non ti ha mai inseguita. Ha, invece, cercato sé stesso. Ha perdonato la tua volontà a rinunciare; ti ha perdonata per averlo condotto così vicino da toccarti nel profondo.
Nessun rancore da parte sua. Il tuo volto non doveva bagnarsi di lacrime. Forse oggi piangerai ma sarà per un’ultima volta. Almeno questo a D. glielo devi.
L’amore è un nobile sentimento e ha compiuto il suo destino.
Un uomo perso: ecco com’era D. senza di te.
Poi è arrivato il coraggio, molto coraggio e un pomeriggio si è presentato alla mia porta.
Ho visto dai suoi occhi che era pronto.
In silenzio si è spogliato, seduto. Io ho preso tela e pennelli e ho iniziato a dipingere. Ma non l’ho raffigurato come un santo, bensì come l’avevo visto quella notte lungo il fiume. Spogliato della vita, dalla paura, dall’illusione.
Un’anima nuda, e così l’ho impresso sulla tela. Una volta dati forma e volto a quella notte si è alzato, vestito ed era pronto.
Il quadro che ho chiamato “Bagnante” doveva avere per lui lo stesso scopo che aveva per Dorian Gray il suo ritratto, persino io mi comportai all’inizio come Oscar Wilde. Questo ritratto è rimasto a lungo nel mio studio, coperto da un telo, pensavo: “La ragione per cui non mostrerò questo ritratto è che temo di aver mostrato in esso il segreto della mia anima”. E di quella di D. Volevo che il “Bagnante” soffrisse al posto di D. proprio come il quadro di Dorian Gray invecchiava al posto suo. Per ricominciare.
E così è stato.
Ti chiedi, oggi, com’è stata la sua vita. Ti rispondo semplicemente che è stata piena, appagante. Nello studio delle stelle ha trovato la sua realizzazione e ha insegnato a molti quelle costellazioni che a te disegnava sulla pelle unendo i tuoi nei. Ne ha scoperte di nuove e una, come suo ultimo regalo, porta il tuo nome.
Così è accaduto anche nel suo privato. Lo ha vissuto, con chi ha scelto di condividerlo.
Non ha mai più parlato di te. Sai, il tempo che trascorre inesorabile è sempre balsamo lenitivo, sfuma tutti i contorni dei ricordi, anche di quelli più dolorosi che magari restano, come dici tu, come una spina conficcata nel cuore quando un luogo, un profumo, un’immagine li fanno riaffiorare. Ma non più di questo.
E D. ed io abbiamo continuato a essere amici; ho vissuto le sue soddisfazioni e la sua serenità ritrovata nella maturità come avevo condiviso lo strazio della gioventù.
Perché ne parlo al passato cara A. e perché scrivo io? Perché D., come avrai intuito sottopelle, è morto.
E non si può tornare indietro né riallacciare i fili della storia. Avreste potuto essere qualcosa di diverso? Amici? Oppure, semplicemente, niente.
Ma la vita ha scelto diversamente e allora tu continua a vivere lungo il sentiero che hai intrapreso, senza rimpianti e senza domande.
Domani gli “leggerò” la tua lettera, sicuro che le parole attraverseranno gli strati di terra della tomba e del tempo. Era destinata a lui, del resto. Spero però che queste righe arrivino a te per placare nostalgia e sensi di colpa. Non ti ho “conosciuta” ma hai sempre fatto parte della mia esistenza e per questo ho sentito che avevi bisogno di sapere.
Buona vita, A.
Sinceramente, Angelo
L’opera
Angelo Visconti, Bagnante | Asciano, Museo Cassioli. Pittura senese dell’Otttocento

Angelo Visconti, Bagnante | Asiano, Museo Cassioli