Il silenzio dell’amante
M'ama, non m'ama, Archeologia, Chiusi

M’ama, mon m’ama. Continua la corrispondenza con le opere dei musei senesi. Scrivi anche tu la tua lettera…
Acala, Clevsins
(Giugno, Chiusi)
Caro Labirinto,
lascio qui, al tuo ingresso, la mia lettera da consegnare a Porsenna. Mi affido a te, come portatore dei nostri segreti. Fatti mio messaggero, e fa in modo che la mia lettera non rimanga silente.
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Porsenna,
ti scrivo mentre inquieta vago fra i nostri cunicoli, in quello che chiamavamo il Nostro Labirinto, dove tante volte siamo stati insieme, mano nella mano. Condannata a pensare a te, notte e giorno, ti chiedo umilmente perdono. Nel momento stesso in cui ti ho aperto la porta della mia esistenza, la mia vita è cambiata, subito a partire da quel giorno di metà inverno nel mese dedicato a Februus, giorno in cui, forse incautamente, decisi di accettare un tuo invito. Da quel giorno, il tempo delle mie giornate si è dilatato, per far posto ai pensieri riguardo a te, che mi accompagnavano segreti e silenziosi. In uno dei nostri primi incontri, ti ricordasti di avermi visto da bambina, anni prima, incontri spuri nella dimora di famiglia, fugaci e di cui poco ricordavamo entrambe. Chissà se ci fossimo davvero conosciuti prima cosa sarebbe successo, mi avevi sussurrato, una volta. Mi avevi fatto trovare insolitamente comoda, nel ruolo di amante, un ruolo che pensavo non mi appartenesse. Tu: uomo di esperienza, a tratti insolente, narcisista, non bello, ma che sapeva sempre cosa dire nel momento giusto. Il tuo essere acceso da passioni irruente e sincere, mi aveva sedotto, senza rimedio. La mia personalità razionale, a tratti impassibile, si era fatta da parte, per lasciar posto ad una me nuova, irrazionale e passionale.
Ci sedevamo quasi tutti i giorni in un anfratto di questi cunicoli, nel Nostro Labirinto, tenendoci per mano, lontano da occhi indiscreti, con il mondo alle nostre spalle. “Mi sto godendo questo momento”, mi sussurravi all’orecchio stringendomi la mano e guardandomi negli occhi. E mi baciavi, con passione e senza indugio. Senza paura che qualcuno potesse passare, e vederci. Usavamo un gomitolo ed un filo di lana per non perderci nel nostro labirinto. Appesi ad un filo per non confonderci e perderci. Tale era anche la nostra frequentazione. Difficile, intricata, sbagliata, appesa inevitabilmente ad un labile filo.
Un giorno del mese di Ampneri, mi dicesti di venire al santuario alle Aquae Clusinae, un luogo remoto, magnifico, al di là del Monte Cetona, dove un tempio votivo era stato eretto e dove tutti accorrevano a lasciare statuette ex-voto, pregando per la guarigione propria e dei propri cari. La prima volta che ne parlammo ti dissi, che forse, non era il caso che io venissi, ma sembrasti dispiaciuto. Sapevi sempre cosa dire, al momento giusto.
Venni da sola. Avevo bisogno di riflettere per tutta la durata del cammino che mi avrebbe condotto al santuario. Ti sentivo già lontano, e stare sola mi avrebbe fatto bene. Giunta a destinazione, notai che un gruppo di locali, accorsi su tuo invito, erano presenti. Regnava un’aria di trepida attesa, e di curiosità.
Vedendoti, mi sentii morire. Per un attimo incrociai il tuo sguardo, da solo, prima di trovare gli altri componenti della folla che avevi radunato. Due perfetti estranei, per il mondo circostante. Fu un attimo che sembrò eterno e subito dopo la folla ignara ci incluse, e ci dirigemmo in processione alla sacra fonte termale, percorrendo una strada impervia.
Il gruppo gremito di persone accorse si distribuì su un piccolo promontorio adiacente al santuario. Tu al centro del tempio. Avevi accanto a te, un oggetto, coperto da un telo leggero. E così, nel silenzio della folla in attesa di una tua parola, d’improvviso, sollevasti il telo e mostrasti a tutti una meravigliosa statua bronzea. Donna bellissima, dalle trecce lunghe fin sotto le spalle, con le mani aperte verso il cielo in segno di preghiera, adornata con importanti gioielli. Era surreale, ma bellissimo essere lì in quel momento. Pensavo a quante donne ti avrebbero voluto (in fondo lo sapevo, e me lo avevi anche detto), e mi sentii ancora di più un numero in mezzo ad una folla. Avrei voluto che la terra mi inghiottisse, per non avere più insicurezze. Amavi gli amori tormentati, sostenevi che l’amore fosse lo stesso ad ogni età.
Il santuario termale era stato fondato dal tuo trisavolo Lars Porsenna, celeberrimo re di queste zone, e di cui porti lo stesso nome. Sarebbe stato fierissimo di te, e di ciò che stavi facendo per queste terre. Eri un re sui generis. Non esitavi a sporcarti le mani, se fosse servito a raggiungere obiettivi ambiziosi, per te e per chi stava intorno a te. Il santuario era diventato un luogo di preghiera a cui moltissime persone si recavano per curarsi e per chiedere la grazia agli dei. Le miracolose acque erano diventate luogo di culto in cui le più facoltose famiglie accorrevano e portavano monete, e statuette ex voto degli organi per cui le famiglie volevano chiedere la grazia. Una vera e propria meraviglia, un giubilo di sculture bronzee. Statue di dita, orecchie, e altri organi, popolavano un luogo magico, dove si respirava sacralità e voglia di perpetuare le arti della medicina. Tutti accorrevano per essere curati e cullati da un’acqua calda e salvifica, prodigiosa. In altre parole, il santuario rappresentava l’essenza stessa del nostro vivere: la speranza.
Mentre questi pensieri vagavano disordinati per la mia mente, ti osservavo: tu che con il tuo fascino, dissimulavi di non conoscermi, e che sempre con lo stesso fascino descrivevi e declamavi il tuo dono ex-voto davanti alla tua comunità. Tu, re di queste terre, che con i tuoi meriti e le tue azioni, saresti stato sempre ricordato dai posteri.
Una volta mostrata a tutti la meravigliosa statua, la bagnasti con le acque calde curative, per renderla ancora più bella e scintillante. La accogliesti poi con cautela fra le tue braccia, per mostrarla al tuo popolo. Fu un momento intimo e indimenticabile, di cui tutte le terre vicine parlano ancora, e parleranno per secoli. Chiedesti inoltre, che la statua fosse posta accanto ad un albero: una roverella. Questo le avrebbe assicurato un piccolo altare da avere come base, così da non minarne la sacralità che insita era in quella meravigliosa creatura che le mani degli artigiani locali avevano forgiato. Ordinasti che sulla base della roverella fossero lasciate indicazioni precise, che qualora in tempi futuri il tempio fosse stato chiuso, la statua avrebbe dovuto essere posta a testa in giù, proprio accanto al tronco. Un gesto rituale e sacro, necessario per evitare l’ira degli dèi. Il tuo era un dono per Igea, a cui eri devoto, e le cui sembianze erano in parte ricordate dalla straordinaria statua.
Notai anche che la statua ricordava, sfacciatamente, i miei lineamenti: naso dritto, occhi grandi, lunghi capelli mossi. Le mani oranti, inoltre, avevano lunghe dita affusolate, proprio come le mie. Da ciò che declamasti, capii che la statua era stata forgiata prima che ci conoscessimo. Per un attimo volli illudermi che tu ti fossi invaghito di me, perché somigliante alla tua creatura bronzea. Mi avevi detto spesso che ero bella, spesso decantavi le mie gambe, che, mi avevi detto, adoravi, così come i miei occhi. Simili lodi tessevi spesso sulle mie grandi e nodose mani, dalle lunghe dita affusolate, che usavi stringere tra le tue, con passione, durante i nostri incontri segreti. Pensieri da conservare muti, nel silenzio dell’amante.
Corro sola nel nostro labirinto, e un brusco rumore mi riporta alla realtà, mentre i ricordi si affastellano e fanno rumore nella mia mente. Ti cerco in ogni angolo, in ogni cunicolo, in ogni anfratto dei sotterranei. Cerco avida le tue mani e le tue dita in ogni impronta che vedo nei nostri cunicoli.
Sono giunta al laghetto sotterraneo, ipogeo. Sono lontana da tutti, una lacrima silenziosa scende sul mio volto. Mi sento persa. Non ho con me il gomitolo che ci permetteva insieme di ritrovare la strada di uscita, di cui ho spezzato il filo in uno stupido impeto di orgoglio. Ad un certo punto, i dubbi hanno cominciato a consumarmi, e, nascondendomi dietro a un velo, quasi fingendomi un’altra me, mi sono fatta confessare dettagli che non avevo nessun tipo di diritto a sapere. Ed ho spezzato il nostro filo, ingiustamente, senza motivo. Avrai forse quasi pensato che io fossi pazza. Ma no. Era solo la mia “stupida” parte razionale, che continuava a dirmi ingiustamente che tutto era sbagliato, e, cercava una scusa per lasciarti andare. Da allora anche tu hai reciso il nostro filo, giustamente. Forse, io stessa, avrei fatto lo stesso. Ma adesso, dopo mesi di assenza, il tuo silenzio si fa assordante, insopportabile, inafferrabile.
Getto una moneta nel lago ipogeo, pregando gli dèi che mi concedano il tuo perdono. So di aver sbagliato, di aver fatto un errore, ma ti prego concedimi di parlarti di nuovo. Mai più romperò il seducente silenzio degli amanti. Mi basterà averti di nuovo nella mia vita, come confidente e amico, accontentandomi delle briciole del tuo tempo, di ciò che un re, come te, potrà donarmi.
Il lago Clusino mostra riflesse le mie lacrime. Rimango qui e sogno solo il momento in cui i nostri occhi si guarderanno di nuovo, in silenzio.
Ti aspetterò, quando tu vorrai, nel nostro labirinto segreto, al solito posto. Senza domande, senza risposte. Solo noi due e la leggerezza di un momento rubato.
Perdonami.
La tua, Igea
La risposta
Cara Igea,
ti è stato dato un grande dono, quello di curare, anzi, di prevenire le malattie e il dolore.
Ma non sei stata in grado di prevenire il tuo.
Sento in ogni mio anfratto, anche nel più nascosto, che ti si sta spezzando il cuore.
A volte essere divinità non preserva dalle sofferenze: ti è stato dato sì il potere di aiutare gli uomini che si rivolgono a te con fiducia, ma non quello di metterti al riparo da quella stessa sofferenza.
Nel tempo vi ho guardato, ascoltato, seguito. Anche se in silenzio, con rispetto e riservatezza. Ma mi “nutrivo” della vostra passione. Eravate l’essenza dell’unione. Quell’intreccio di mani e anime… Quei baci, l’espressione di un unico cuore, di un solo sentire.
Ogni luogo, ogni goccia d’acqua, ogni angolo di me ha impressi i ricordi di attimi struggenti, di infinite parole o dei silenzi pieni dei vostri sussurri d’amore.
Un re di una città, potente e valoroso, una dea.
Potevate rappresentare agli occhi di chi, nei secoli a venire, avesse raccontato la vostra storia, la dimostrazione che l’impossibile potesse diventare possibile.
Avreste dato fiducia agli amanti pieni di dubbi e di disperazione che sarebbero venuti dopo di voi.
Amanti, che brutta parola. A volte sa di sporco, come le acque del lago quando diventano torbide.
Eppure, i vostri cuori erano puri: voi vi sentivate puri, quasi purificati, grazie a questo sentimento. Seppur nascosto.
Che al di fuori di me poteva essere capito solo da chi avesse colto quel lampo di sguardi complici.
Non esisteva tempo o luogo nei miei meandri tortuosi dentro al quale vi perdevate.
Perché legati da un filo che vi teneva uniti.
Ora senza Porsenna ti sembra di non esistere.
Senza quel filo, per perderti nei miei cunicoli.
Di non essere. Ma non è così.
Rimpiangerai sempre quelle parole che lo hanno allontanato.
Lui, uomo fiero che non torna indietro.
Lui, al quale sanguinerà il cuore dalla nostalgia.
Lui che continuerà a pensare all’unisono con te.
Ma ormai il momento è passato Igea, esci da me, corri verso la luce.
Torna a guarire gli uomini.
Così guarirai anche tu.
Il tuo Labirinto
L’opera
Urna Etrusca | Chiusi, Museo Civico “La Città Sotterranea” [la lettera è dedicata all’intero museo]