Scarpe contadine
M'ama, non m'ama, Memoria, Buonconvento

M’ama, mon m’ama. Continua la corrispondenza d’amore con le opere dei musei senesi
Care scarpe contadine,
vedervi così tutte in fila come dopo una lunga giornata di lavoro, mi trasmette ricordi immaginari dell’epoca in cui siete state usate.
Mi tornano alla mente i racconti di mia mamma che, quando ero un ragazzo, mi raccontava delle famiglie contadine allargate.
Una volta, quando lei era piccola, tutti vivevano insieme, genitori, zii e anche nonni perché il modo di intendere la famiglia era molto diverso.
Quando penso a voi scarpe di una volta, mi immagino il mio bisnonno che purtroppo non ho mai conosciuto, un uomo forte e duro che lavorava la terra e governava le sue mucche con passione, sapendo che erano il sostentamento per la famiglia di cui facevano parte mio nonno e mia nonna insieme alle piccoline che erano mia madre e mia zia.
Erano tempi duri allora e sono convinto che, già in un periodo come quello dove faceva il contadino mio bisnonno, il solo fatto di potervi avere ai suoi piedi e permettergli così di lavorare, sia durante la guerra che anche dopo, quando le cose erano difficili per la famiglia, gli debba aver dato la forza di continuare senza arrendersi alle difficoltà.
La lontananza di mio nonno, prima soldato poi prigioniero di guerra, il ritorno e il riunirsi della famiglia per poter andare avanti; tutto è passato attraverso il vostro esserci come umili strumenti di lavoro per gente semplice che viveva in modo semplice.
Grazie per essere ancora testimonianza di quei tempi andati di cui è doveroso fare memoria.
Marco Fini
La risposta
Carissimo Marco,
parole, le tue, di tempi passati. Altri sentimenti, altri valori, altro rispetto. Anche per un paio di scarpe. Tutto, quando eravamo giovani al tempo del tuo bisnonno, aveva uno spessore più profondo. Vita di contadini, ritmi legati alla campagna: un altro mondo insomma. Ci si svegliava di notte per andare a lavorare e sempre di notte si rientrava a casa. Almeno durante le semine e i raccolti. Il tempo della natura dettato dai suoi bisogni e non da un orologio.
Noi scarpe li aspettavamo lì, in fila fuori dalla porta, proprio come ci vedi adesso, pronte a sostenerli durante le dure ore di lavoro. Abbastanza comode da non rendere la giornata ancora più straziante, ma anche abbastanza forti così da garantire una certa sicurezza. Stare in piedi. Ecco come era la vita allora. Bisognava stare in piedi e sorreggere tutte le persone che contavano su di te. Poi, finito il lavoro, ci fermavamo di nuovo lì, fuori della porta, sempre in fila, a riposare anche noi.
Hai ragione Marco: allora non è come adesso anche nella “quantità”. Di scarpe ogni uomo semplice ne aveva due al massimo: un paio per lavorare, un altro per le occasioni importanti. Come le cerimonie o la messa ogni domenica, se credente. Per andare alle fiere o, una volta a settimana, al mercato a comperare sementi e piante. O, quando si poteva, a comprare un piccolo dolce per le proprie figlie, come tua madre e tua zia.
Nessuno soffriva mai di solitudine, forse di fame sì nei tempi di magra, ma l’affetto circondava e nutriva tutti. Anche noi semplici scarpe non ci sentivamo mai sole perché eravamo preziose e loro avevano cura di noi.
Facevamo parte di un mondo antico.
Capita, a volte, mentre siamo qui in fila, di sentire ancora il calore di quei piedi, di quelle calze di lana fatte a mano, a volte un po’ troppo ruvide perfino per la nostra pellaccia; di percepire la consistenza di quel grasso magico con il quale “cibavano” la nostra pelle e ci tenevano pulite e morbide. Altri tempi.
L’opera
Vecchie scarpe contadine | Buonconvento, Museo della Mezzadria senese