A Domenico e il suo San Regolo
M'ama, non m'ama, Arte, Pienza

M’ama, mon m’ama. Continua la corrispondenza con le opere dei musei senesi. Scrivi anche tu la tua lettera…
Illustre (e sfortunato) Domenico di Niccolò de’ Cori,
mi sono fermato a lungo a guardare questa scultura di San Regolo ora nel Museo diocesano di Pienza, e devo confessare che son rimasto colpito dal contrasto tra realismo della figurazione e astrattezza del gesto che il Santo compie. Subito mi è venuta in mente una diceria che sentivo circolare quand’ero ragazzo. Si rimproverava allora da parte di molti ai comunisti di portare il cervello all’ammasso. Per disciplina e ordini superiori costoro rinunciavano – si vociferava – a pensare con la propria testa e conferivano al partito una sorta di mandato in bianco. L’ostensione che San Regolo fa del suo capo mi ha ricordato quella devozione totale, quella rinuncia ad un pensiero soggettivo, a far funzionare il proprio cervello in autonomia. Ma questa bislacca comparazione è durata poco. Mi hai fatto pensare, invece, alla vicenda attribuita ad un cristiano ordinato vescovo che approdò dall’Africa in quella che allora non poteva chiamarsi Italia per sfuggire alle persecuzioni e battersi per una pacificazione difficile, per una spiritualità di nuovo conio: il verbo evangelico della fratellanza. Quante persone oggi percorrono la rotta che insieme ad altri eroici immigranti ha fatto il Santo caro ai lucchesi! Come nel mondo si ripetono storie simili!
Stupenda è la solennità triste raffigurata nella statua luminosa d’oro! L’ultima volta che sono andato a Lucca mi son recato nella cattedrale di San Martino, dove son custodite le spoglie di Regolo. Ho sostato davanti alla lunetta che nel portale destro del Duomo immortala il momento dell’esecuzione, reso con una drammaticità che non ha nulla da invidiare a certe angoscianti riprese audiovisive odierne. Poi, per riprendere fiato e scacciare orrendi parallelismi, mi son seduto e ho indagato l’affresco che nel 1681 dedicarono a Regolo Giovanni Coli e Filippo Gherardi, se ben ricordo. San Regolo ha la testa sulle spalle. Nell’Oltremondo si è ricomposto il corpo straziato da un crudele carnefice. Dal sangue del martirio alla gloria della cupola, dalla soda terra alla vertigine aerea del cielo. Per tuo merito il Santo venerato con tanto amore racconta in un enigmatico silenzio – lo sguardo perso nel vuoto – la testimonianza della sua fede, in forme ben calcolate e proporzionate.
Non vive ma sopravvive nella testa mozza l’eco della sofferenza e la rassegnata quiete di un addio che ci coinvolge e ci fa pensare. Come se la falce della morte avesse preso di mira quel corpo, ma non fosse riuscita a uccidere la volontà suprema che l’animava, la sua fedeltà alla buona novella che voleva portare dall’Africa in tumulto alla gente delle sponde tirreniche, affrontando un viaggio non meno avventuroso di quelli che in tanti oggi fanno per trovare una pace possibile. Hai saputo rappresentare una condizione psicologica, darle corpo e al tempo stesso rendere omaggio ad un Credo che sfida i secoli.
Roberto Barzanti
La risposta
Illustrissimo Roberto Barzanti,
che tu sappia leggere così nel profondo nell’anima mia mentre, passo dopo passo, davo vita alla figura di San Regolo, mi commuove e appaga. Non è forse la più conosciuta delle mie opere ma certo ricca di significati. E quei significati li hai portati alla luce in quanto mi hai scritto. Anzi, non al plurale (significati) ma al singolare (significato).
Hai evocato tre cose che, in apparenza, non c’entrano niente l’una con l’altra (se avessi voglia di schematizzare, con un sorriso e una battuta, la tua lettera, direi che con la tua lettera c’è da perderci la testa!), ma che, in realtà, hanno fra sé un nesso profondo e importante.
I comunisti della tua gioventù, accusati di portare il cervello (la testa, se vogliamo stare in tema) all’ammasso, dimostravano in realtà una fede collettiva in ciò in cui credevano. Condivisibile o no, ma convinta, sincera. Una fede che aveva un traguardo ben preciso, per raggiungere il quale si richiedeva un comportamento coerente, omogeneo, che non presentasse rischi di distorsioni, di sviamenti. Giusto? Sbagliato? Questo a me non interessa, ma una cosa la capisco: loro credevano in qualcosa di importante e per questo qualcosa accettavano il sacrificio di accordare il loro pensiero individuale a quello generale.
Credevano in qualcosa anche quelli che, come il mio San Regolo, erano disposti, la testa, a portarla all’ammasso di quelle mozzate o, comunque, di quei corpi che si accettava, per coerenza con ciò in cui si credeva, di consegnare anzitempo e drammaticamente alla morte, sicuri che i corpi stessi potevano perire, ma le idee, la fede, quelle no.
Cose desuete, forse, nei tempi de-sacrati nei quali, caro Roberto, tu vivi. Più giusto così? Forse, ma non ne sono sicuro. Ai tempi di Regolo ammazzavano i corpi: nei tuoi ammazzano i sogni. Ma non i sogni intesi come fantasie utopistiche: quelli intesi come programmi e mete. Ed eccolo il terzo accenno della tua lettera: Regolo veniva perigliosamente dall’Africa sapendo che nella terra promessa occidentale avrebbe potuto trovare il martirio, la morte. Veniva da quella rotta che oggi seguono migliaia di disperati con il sogno di una vita migliore. E il sogno – loro lo sanno bene – può avere il costo della perdita della vita stessa. Eppure, lo fanno ugualmente, perché ci sono sogni (che si chiamino di giustizia sociale, di vita dignitosa, di fede in una nova spiritualità) che vale la pena di cercar di trasformare in realtà. Certo, sapendo che questo può avere un costo molto alto. Sì, Regolo (bello il tuo accenno all’immagine lucchese) la sua testa-sogno l’ha ricomposta nella gloria. Gli altri no, o non sempre. Ma la mia rappresentazione proprio questo voleva dire: abbiamo… no: abbiate (io ho già dato, in termini di vita biologica) ancora voglia di avere qualcosa per cui valga la pena di sognare. E di rischiare, per questo, di “rimetterci la testa”. In fin dei conti è anche questo che dà il poco senso che ha la nostra povera esistenza umana, no?
Salutami la tua (e mia) indimenticata Siena.
L’opera
Domenico di Niccolò dei Cori, San Regolo | Pienza, Palazzo Borgia – Museo Diocesano

Domenico di Niccolò “dei cori”, San Regolo | Pienza, Palazzo Borgia Museo Diocesano