L’angelo e l’amore
M'ama, non m'ama, Arte, Asciano

M’ama, mon m’ama. Continua la corrispondenza con le opere dei musei senesi. Scrivi anche tu la tua lettera…
Ma dove mai l’aveva già vista? Già, dove mai l’aveva già incontrata?
Così aveva deciso di scrivere quello che stava vivendo, riservandosi di mettere la destinataria solo in un secondo momento, quando avesse messo a fuoco i suoi desideri, scoprendo chi fosse.
Il pensiero e la lettera non potevano che tornare ai giorni trascorsi nel Senese, al suo curioso giro fra i tesori fondo oro che aveva descritto, come esperto d’arte, ad un pubblico seduto e ben disposto. Adesso, nella sua casa a picco sul mare, per una volta era dimentico della bellezza che faceva da sfondo al suo addormentarsi.
La sua mente era altrove: immaginava la notte che taceva immota e rassegnata, come una enorme bestia accovacciata sul mare e sui boschi. Nella verde caligine dell’orizzonte marino, la Gorgona errava remota e delusa come un veliero alla deriva. Dalla nera foce del Magra uscivano le barche dei pescatori, le vele s’accendevano a una a una nel chiarore lunare. A un tratto in quella casa a picco sul mare, un’ombra trasparente attraversò la stanza. Mise a fuoco la vista e a poco a poco apparve una figura vagamente femminile, che camminava a piedi nudi senza far rumore, senza fare caso alla sua presenza. Alzava i piedi con faticosa lentezza, come un uccello ferito nell’ala, con assorta grazia, quasi camminasse in sogno. Guardò ancora meglio e vide che aveva le ali: due ali scarlatte e trasparenti, con un contorno del colore delle foglie dei pioppi nelle mattine d’estate.
Quella figura al femminile era un angelo e lui sperò che fosse arrivata per annunziargli l’ora più bella della sua vita, quella di un incontro che avrebbe seminato felicità.
La luna sorgeva in quel momento sul mare, s’alzava dall’azzurra spalla dei monti, saliva tacita e bianca nel cielo puro, una luce candida si spandeva nell’aria immota e fredda.
L’Angelo si era fermato davanti alla finestra, la fronte appoggiata ai vetri. Poi s’avvicinò al divano e vi si distese con la guancia sulla mano aperta, in atto di dormire. Le sue ali respiravano con ritmo lento e uguale.
Gli venne da sussurrare: “Quando ti sveglierai e deciderai di andar via, non mi lasciar solo, Angelo folgorante di bellezza, portami via, non mi lasciar vivo in questa stanza!”
Un dorato riflesso illuminò la stanza, l’Angelo era adesso in piedi alla finestra, aveva il profilo di qualcuno già visto, conosciuto. Così disparve, svanendo nell’aria tersa, e lui restò con l’immemore sorriso che i morti ci recano in dono quando risorgono alla vita.
Allora ebbe come un sobbalzo, come se la sua mente avesse agganciato un’immagine. Ritornò come per folgorazione alla conferenza che aveva tenuto, a quella ragazza che sedeva in disparte: se la ricordò insolita, bellissima. Non aveva avuto il coraggio di parlarle, di fermarla: eppure era somigliante al concetto che aveva della bellezza che si abbandona presto all’innamoramento.
Una Toscana che non conosceva. Lui, che aveva sempre vissuto al confine che separa la Liguria a questa terra, che aveva sempre visto questa regione come un paese tenero ma lugubre, così delicato, così tanto che gli occhi bucano facili il paesaggio, con lo schermo labile dei monti, degli alberi, dei muri, offrendogli di vedere oltre un misterioso paese, quella Tuscania segreta dei morti, il paese degli spettri. Popolato di fantasmi di alberi, di case. E nei suoi studi a parlargli era ciò che dipingevano Spinello Aretino, Simone Martini o di altri tardi trecenteschi. Ma adesso non era così.
Solo in quella visione notturna, nella sua casa aperta ai venti, aveva compreso, convincendosi compiaciuto, che quell’angelo che aveva davanti avesse già ispirato qualcuno altro, precisamente Martino di Bartolomeo, pittore di sangue toscano, che aveva già dipinto quella ragazza così attenta alle sue parole. Lo aveva fatto per la sua Annunciazione, opera realizzata per la Collegiata di Sant’Agata ad Asciano e adesso esposta al Museo Civico di Palazzo Corboli, ancora in terra ascianese. E la rivedeva ancora e sempre angelo con le braccia incrociate, sia nella rivelazione antica che nell’attuale ascolto delle sue parole.
Un miracolo o un innamoramento? Chissà, l’amore è per definizione, una esagerazione, un eccesso. Quindi nulla di nuovo nei cicli della terra e dell’uomo: “Carissima visione – avrebbe voluto dirle – il mio cuore è una porta aperta al tuo profilo che ricordo più nel dipinto che nella realtà. Esposta al tramontano della vita, al libeccio, allo scirocco, al grecale ma soprattutto a quel venticello della passione che soffia quando gli pare, svogliato e capriccioso, e se non gli dai il passo si mette a fare le bizze e rimane tutta la notte a mugolare fuori, raspando le pietre, come un cane che ha trovato chiuso l’uscio di casa. E ti tocca alzarti dal letto ed aprire”.
Ecco svelato il mistero di quello che aveva visto nella penombra della casa: l’angelo appena atterrato, quel viso colmo di una luce di acqua e di cielo.
Facile la decisione di ripartire all’alba, per rivederle entrambe. L’angelo e la ragazza. Aveva adesso compreso a chi indirizzare questa lettera, queste parole.
E tornare subito in terra di Asciano.
Martino di Bartolomeo aveva dipinto e poi il presente si era trasformato nella sconosciuta bellezza. L’amore si era rivelato un sogno premonitore. Del resto, la sensualità è bella quando inaspettata, un insieme di sfacciataggine e pudore.
Massimo Biliorsi
La risposta
Sono un angelo del Signore, eppure mi sto guardando intorno con un senso di smarrimento. Abbasso il volo inclinando il corpo in avanti di tre quarti, muovo due o tre volte le ali, poi mi rialzo, incerto sul da farsi, quasi in verticale. Il compito era più grande di me, perfino di me, e forse tu che mi racconti lo hai capito. Alla fine, scendo a terra e sento qualcosa al contatto con il pavimento. Rabbrividisco. Ma forse solo in me. Chiudo le ali e mi inginocchio in silenzio di fronte a quella giovane donna.
Pioveva forte quella sera. Non mi rilasso, ci prova sai a dipingermi rilassato, ma in me c’è una tempesta forte come quella che si è scatenata fuori. Con la mano mi liscio due remiganti che si erano scompigliate nello scendere, e indugio osservare con preoccupazione una di esse che pareva quasi piegata.
Chissà perché me le ha fatte rosse? Sarà per premonire nel dipinto cosa accadrà dopo le mie parole?
Sai, tu che scrivi, io non li amavo granché gli uomini: non tanto per la loro fragilità o fallibilità, quanto piuttosto per la loro animalesca presunzione. Se alzavano lo sguardo al cielo, ormai, era per vedere quanto pioveva, non più per un essere misterioso che volava annunciando un prodigio.
Ma lei, bellissima, mi guardò con sguardo tremante eppure sicuro.
“Sei un angelo”, lo so.
E lo disse convinta, contro tutto.
Contro tutti.
Contro ogni razionalità.
In quella sera che non poteva che essere grigia, fredda e piovosa. E triste.
Di passaggio. Di grandi cambiamenti.
E non poteva che sancirli un angelo mandato dal Signore.
E l’angelo sentendo il suo cuore e la sua voce mentre annunciava cosa le avrebbe riservato il futuro la seguì con lo sguardo fin quando la sua figura non si illuminò, ad onta del grigio e dalla pioggia.
Sì. Solo sì.
Ed io accennai un gesto con la mano destra, l’indice e il medio leggermente alzati. Si sarebbe potuta scambiare per una benedizione, ora che potevo, per l’ultima volta, perché poi sarebbe stata lei a benedire me e gli uomini.
Ma sta a te che mi parli e che hai capito il mio cuore, comprendere. Io, dopo un attimo, ero sparito. Avevo compiuto il mio destino. Lei ormai aveva in mano il mio amore e l’amore del mondo.
Cercate, anche voi, come colui che mi ha scritto, di vedere gli angeli quando vi sfiorano.